FLAVIO RIDOLFI

Architect, PhD

V1 – G3

Si comincia il giro. Philipo e Samsun hanno qualche minuto di ritardo, ma non glie lo rimprovero, vista la gentilezza e la disponibilità. Aspetto sul cancello dell’albergo vicino ad un tizio masai che smessaggia col suo smartphone appoggiato ad un bastone. Non avevo capito che sarei stato trasferito a dormire in un altra struttura, quindi quando mi passano a prendere bisogna perdere un altro quarto d’ora per colpa mia che devo chiudere lo zaino. Philipo mi consegna una sceda sim che si è procurato per me: d’ora in avanti smessaggerò anche io. Si va alla foresteria CESI, che ieri era al completo. Si tratta di una struttura a gestione italiana che ospita viaggiatori, principalmente afferenti a varie associazioni grandi o piccole del nostro paese coinvolte in qualche modo con la cooperazione. Lasciato lo zaino in un angolo, iniziamo finalmente il tour dei rivenditori di materiali che saranno utili per la costruzione. Lo scopo è quello di avere un’idea più chiara di quali componenti sono effettivamente disponibili, o almeno disponibili con semplicità e ad un prezzo ragionevole. So già che bisognerà cercare alternative per molte scelte tecniche del progetto.

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Ci fermiamo in un complesso industriale recintanto, con area di carico e scarico e molti camion pronti alla spedizione. Purtroppo il rivenditore con cui abbiamo appuntamento è fornito soltanto di una esposizione di piastrelle ceraimce, bicottura a finitura lucida e pessima texture a stampa, il cui utilizzo non è neanche lontanamente previsto nel nostro progetto. La ragazza che si occupa delle vendite ci mostra anche una pila di lamiere ondulate o nervate, che qui sono utilizzate praticamente in tutti i casi per il manto di copertura delle falde. Qui si tratta quasi di un bene di consumo, che compare in ogni scorcio costruito: nei tetti delle case e dei capannoni, nelle pensiline, nelle recinzioni, e sostanzialmente a comporre l’intero involucro delle più povere abitazioni costruite ovunque in modo informale. Spesso, si ricoprono di ruggine, ma a volte no. Chiedo alla commessa quali siano i formati massimi disponibili, non li sa. Chiedo qualche caratteristica del materiale, non la sa. Chiedo se c’è a disposizione un profilo più robusto o con nervature più accentuate, la risposta è no. Tra l’altro, “grecato”, “nervato” ed “ondulato”, come aggettivo per una lamiera qui lo si comunica solo come corrugated, e la circostanza non mi aiuta a spiegarmi, neanche integrando con disegnini. Il motivo per cui abbiamo bisogno di lamiere più robuste è che nel progetto del VIC i solai, sia quello calpestabile a terra che quello della chiusura superiore devono essere capaci di reggere peso. Vorremmo una lamiera gracata che abbia un’escursione di almeno 7-8 cm. Riesco a farmi mostrare un foglio con la lista dei prodotti che hanno, così da poter leggere qualche dimensione: è in cinese.
Proseguiamo per un altro rivenditore. Qui la cosa si fa più rustica, ma i materiali a disposizione sono più aderenti alle necessità del VIC. Vendono le solite galvanized iron sheets ondulate e nervate, spesso con colorazione a scelta su un lato, estetica e protettiva. In più, hanno barre per CA di ogni dimensione, lisce e con aderenza. Le tengono ammucchiate ad enormi fasci praticamente in mezzo alla strada. Hanno anche una una piccola gamma di profilati metallici: tubolari tondi, scatolari, C. Non vedo IPE o HE o analoghi. La merce è disposta a terra più o meno ordinatamente lungo la strada, altra è sotto una tettoia o dietro alcune serrande avvolgibili che vengono aperte per noi. Continuando a vagare per Dar, di rivenditori così ne ho visti più di uno, comunque.
Terzo rivenditore visitato: hanno vernici. È l’ora di pranzo ma su insistenza di Philipo si dimostrano gentili e vanno a chiamare qualcuno che tratti con noi. Il boss è un indiano. Gli chiedo un intonaco adeguato, mi offre una roba a base di gesso dandomene un catalogo: apprezzo molto il pensiero. Dò un’occhiata, penso che sia effettivamente una possibilità. Inizialmente avevamo pensato di lavorare con un intonaco naturale a base di terra stabilizzata con gesso da realizzarsi sul posto, ma devo ammettere che sarà improbabile che riusciremo ad ottenere una cosa del genere per una serie di ragioni: innanzitutto, né io né Dalia abbiamo mai fatto un’esperienza pratica di questo tipo, e la buona riuscita di un intonaco naturale è una cosa un po’ spinosa; non riusciamo ad inserire nel budget alcuna consulenza, se non volontaria; non avremo modo di supervisionare tutte le fasi della costruzione ed eventualmente la produzione del mix per un buon intonaco deve essere controllata da vicino; l’ambiente circostante aggressivo – foresta pluviale tropicale – costituisce un rischio per la buona durata. C’è sempre da vedere quanto durevole sia questa alternativa qui, però.
Non hanno materiali da costruzione strutturali (la mia prima preoccupazione di oggi) ma per quello ci raccomandano i loro vicini di cui ci danno un contatto. Uscendo dallo stabilimento mi fermo a guardare i tetti dei capannoni, naturalmente in lamiera e mi cade l’attenzione sulla parte finale in cui le lamiere sono ricurve (come afflosciate) lungo la direzione della nervatura. Questo per evitare eventuali risalite di acqua da sotto lungo la linea di gronda. A guardarle da vicino, vedo che si tratta di un pannello pronto allo scopo, du cui una porzione è intaccata in stabilimento per permettere quella particolare curvatura con precisione. Si tratta di bassa tecnologia, ma io così non ricordo di averle mai viste. Qui ne fanno molte applicazioni, ma mi pare fortemente improbabile che entrino a fare parte del VIC. Dopo averle notate, oggi ne vedrò molte altre in giro per Dar es Salam.
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Con un foglietto in mano lasciatoci dal rivenditore precedente, arriviamo dagli amici degli amici: questa è un’acciaieria vera e propria, dove tagliano e saldano componenti in acciaio anche pesante. Spero di trovare quanto ci manca. Dentro l’ufficio, un lungo tavolo per accogliere i clienti. Da me viene a parlare un’indiano anche in questo caso. Lui ha alcuni fogli che descrivono i profili metallici che hanno a disposizione, e da una rapida scorsa mi sembrano ok. Posso tenere il foglio. Mi dicono che posso fare un giro nell’acciaieria per vedere i materiali, cosa molto interessante. Più per la curiosita di ficcanasare che altro. Molti lavorano, molti se la ronfano accomodati su dei grossi pneumatici di camion. Perché biasimarli? Hanno anche pile di piastroni di acciaio di svariati cm di spessore ognuno, almeno per me molto belli da vedere. Ci sono anche le solite lamiere ondulate, qui anche in versione pressata in modo tale da assomigliare a delle tegole, cosparse di pietrisco come una specie di asfaltino colorato per farle sembrare più naturali, se questa è la parola giusta. Dentro uno dei capannoni, stanno saldando delle barre per farne delle sedie. Torno all’ufficio per chiedere se è eventualmente possibile chedere di fornire delle componenti metalliche di facile esecuzione sulla base di miei disegni, visto che eseguono sul posto lavorazioni simili. No, non è possibile.
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Quello che manca davvero sono le lamiere per i solai. Philipo ad un certo punto mi spiega che no, in Tanzania quella roba non esiste. Men che meno esiste se si è così tanto in ritardo sull’ora di pranzo. Samson era andato intanto a prendersi un’arancia, e gentilmente ne porta una anche a noi. Sessione conclusa. A parte la lamiera grecata che proprio manca all’appello, si conferma l’idea che non è così che acquisteremo i materiali. Sapevamo che serve la mediazione di un tecnico locale, poi va ancora risolto il nodo dell’appalto da parte del Tanapa, e poi ancora quello della direzione dei lavori visto che noi non potremmo essere costantemente sul posto. Questi argomenti fondamentali saranno affrontati nei prossimi giorni, quando raggiungerò gli Udzungwa. Sono però più che certo che questa giornata si rivelerà utilissima, e la ripeterei; però non la ripeterò. Decidiamo infatti di partire per gli Udzungwa domani mattina. Si tratta di un viaggio piuttosto lungo, che svolgeremo in pickup: circa quattro ore per raggiungere Morogoro e poi più o meno altrettante per arrivare a Man’gula, villaggio rurale ai piedi dei monti Udzungwa. La foresteria in cui alloggerò si trova lì. Philipo mi chiede se per me è ok se durante il viaggio ci fermiamo a fare shopping di cibo per i prossimi giorni, dato che arriverà al parco una delegazione di studenti liceali di Trento. Non ho obiezioni, anzi mi pare una bella opportunità di visitare molti luoghi. Siamo intanto in strada per tornare al CESI, prendendo con pazienza il traffico di Dar che continua a sembrare incredibile, quasi ingiustificato data la conformazione della città. Dar es Salaam è la tipica città africana in incontenibile espansione. Un inurbamento rapidissimo la sta facendo lievitare e crescere in modo incontrollato, tramite insediamenti prevalentemente informali che consumano una quantità enorme di territorio (si tratta di piccole costruzioni di un piano, una densità di insediamento bassissima). In moltissime porzioni manca la cosiddetta urbanizzazione primaria, e la percezione che ho guardandomi attorno è sempre quella di essere in campagna o in periferia, salvo farmi smentire dalla cartografia con GPS che ho nell’iPad: sono proprio nel bel mezzo della mappa! Le distanze si allungano moltissimo, le strade praticamente con ci sono se non come spazi di risulta per giunta occupati da chi lavora in strada: non c’è da stupirsi che la mobilità sia un problema primario. Nota positiva, nella percezione di un passante come me: c’è sempre tantissima vegetazione e bellissimi alberi e palme, ovunque.
Accostiamo al Mlimani City Mall. Philipo mi mostra la copertura chiedendomi se voglio costruire una roba del genere. Vado a curiosare nel centro commericale che è molto pulito, fornito e frequentato. Mi tagliano la sim per poterla usare nell’iPhone. Chiedono la bellezza di 5.000 TZS per l’operazione, ma quando Philipo insiste per avere la ricevuta la cifra scende a zero. Io invece ero già li coi soldi in mano.
La mia camera deve ancora essere pulita, quindi noi tre ce ne andiamo a pranzo nei paraggi per temporeggiare. Ho occasione di assaggiare una Stoney Tangawizi, bevanda gassata allo zenzero ora prodotta dalla Coca Cola Company, un tempo non so. Dal sapore assolutamente discutibile, è una di quelle schifezze che piace a me. Suona il mio telefono, che effettivamente ora dispone di una connessione internet: mia sorella Laura tenta una chiamata video. Rispondo perché oggi è l’ottantesimo compleanno di mia nonna. Il video funziona piuttosto bene, quindi riesco a farle gli auguri con l’aggiunta di quelli di Philipo e Samson che si prestano volenterosissimi a dire “tanti auguri”.
Dopo pranzo vado in camera a mollare le mie cose. Proprio come ieri ho una porzione di giornata da colmare e di nuovo lo faccio passeggiando in riva all’oceano. Oggi molte meno persone, anzi spiaggia praticamente deserta. Mi siedo a bere una birra Kilimanjaro in un bar mentre mi metto in contatto con parenti&amici. Mentre metto alla prova le virtù multi-tasking del mio iPhone 4s balzando disperatamente tra Whatsapp, Facebook, Messenger, Telegram, iMessage, Skype e Facetime, sollevo un sopracciglio nello scorgere alla mia destra una tessitura muraria nota. Si, ho detto tessitura muraria, abbiate pazienza. Mi alzo per andare a guardare meglio, birra in mano, e in effetti vedo che si tratta dei blocchi interlocking della Hydraform. Per i non brieffati (scusate il termine sgradevolissimo a cui non resisto mai), si tratta del sistema costruttivo per murature che abbiamo scelto per costruire il VIC. I blocchi di terra compressa stabilizzata vengono “stampati” dal macchinario Hydraform drettamente sul sito di costruzione. Il materiale è quanto di più ecologico ci sia. Non c’è bisogno di cottura. Non c’è bisogno di trasporto. I blocchi si apparecchiano senza bisogno di malta, ma solo facendo combaciare le sagomature di cui sono dotati, il che rende la fase di costruzione semplice, pulita e più tutelata dalle imprecisioni. In fase di progetto eravamo pervenuti abbastanza presto a prediligere i BTC (blocchi di terra compressa) come sistema costruttivo. La Hydraform, azienda sudafricana, è uno dei principali produttori al mondo di macchinari per la produzione di blocchi a pié d’opera, e la avevamo già contattata per avere informazioni tecniche ed economiche sui loro prodotti. Guardavamo però il loro brevetto di blocchi ad incastro oscillando tra interesse e scetticismo. La coincidenza ha voluto che, quando il 27 luglio 2013 a Trento abbiamo presentato il progetto ad Allan j. H. Kijazi che è il principale dirigente TANAPA, noi abbiamo nominato i macchinari Hydraform mentre argomentavamo sulle virtù del nostro progetto e lui ci ha risposto molto tranquillamente che il loro ente ne possedeva già uno, a nostra disposizione. Questa opportunità ha reso la scelta praticamente obbligata. A distanza di un anno circa, ecco quella che io considero un’altra coincidenza sulla spiaggia di Dar es Salam, proprio mentre mi sto recando in Tanzania per vedere finalmente questo macchinario il cui buon funzionamento è vitale per la riuscita del progetto. Questo sistema costruttivo in Africa ha un po’ di mercato, ma non così tanto da imbattervisi quotidianamente. Malgrado il progetto, non avevo mai visto un blocco Hydraform. Dalla ispezione curiosa, mi pare che sia un buon prodotto. Oltretutto, mi piace associare questo incontro ad un buon segno.
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Me ne torno verso il CESI continuando ad aggeggiare con il telefono finché non smette di funzionare perché ho finito il credito. Così imparo. Ceno alla mensa della foresteria, mi intrattengo in chiacchiere con vari italiani che viaggiano ognuno con una storia diversa. Poi a letto, che la sveglia è alle 5:30!

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On agosto 18, 2014
by Flavio Ridolfi
in field mission, Portfolio, Udzungwa VIC
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